Perché non ricordiamo di quando avevamo uno o due anni?

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXII – 29 marzo 2025.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Non ricordiamo nulla dei nostri primi anni di vita e, in passato, i rari casi di persone che sostenevano di poter ricordare non hanno retto alla verifica scientifica, che ha dimostrato trattarsi di false memorie o memorie di racconti uditi negli anni successivi. Ma questa assenza di ricordi precoci è perfettamente fisiologica, oltre che intuitivamente comprensibile, e in psicologia dello sviluppo è nota con una definizione impropria ma ormai convenzionalmente accettata da decenni: amnesia infantile. Impropria, perché l’amnesia è una perdita di memoria, mentre in questo caso le memorie episodiche mancano del tutto, o perché non si sono mai formate o perché non sono rievocabili. E proprio queste due possibilità, nessuna delle quali è mai stata esclusa finora dalla ricerca, rappresentano un importante oggetto di studio per coloro che indagano le basi neurobiologiche dei processi cognitivi.

Non è possibile riassumere in poche righe gli esiti della ricerca condotta finora in questo campo, qui ci limitiamo a dire che, prendendo le mosse da una nozione di immaturità generale di tutto l’encefalo alla nascita e dalla traccia della cronologia di sviluppo dei circuiti dell’ippocampo e della corteccia cerebrale, anche in rapporto con la maturazione mielinica, non pochi ricercatori hanno considerato la possibilità che alla nascita difettino sia i processi di formazione delle memorie, sia i processi di consolidamento. Tuttavia, il maggiore interesse lo hanno attratto le due fazioni contrapposte di ricercatori che lavoravano rispettivamente sull’ipotesi di un difetto di formazione (memorie evanescenti) e sull’ipotesi di un difetto di rievocazione (sistemi di recupero incompiuti).

Un’obiezione di fondo alla concezione di questi studi è stata mossa nel corso degli anni, a partire da considerazioni sulla memoria in termini neuropsicologici e di scienza cognitiva: la memoria che si cerca negli infanti è la memoria episodica che, con la memoria semantica, forma l’insieme delle memorie “dichiarative”, ossia presenti in forma esplicita alla coscienza e strutturate come linguaggio-pensiero: ma, se la base neuronica della coscienza e del linguaggio verbale non si sono ancora sviluppate, come potrebbe esistere una memoria episodica?

La ricerca recente conferma che anche altre specie animali formano memorie precoci che non possono essere richiamate per l’uso nei periodi successivi della vita. Il problema è che, nel cercare le basi neurobiologiche di questa mancanza di ricordi, la sperimentazione animale non è di grande aiuto, ed è necessario indagare il cervello di neonati e lattanti per ottenere qualche risposta ai numerosi quesiti formulati in termini di fisiologia dei sistemi neuronici. A questo fine sono stati sviluppati metodi speciali applicati alla risonanza magnetica funzionale (fMRI, da functional magnetic resonance imaging) per ovviare i problemi connessi con l’impossibilità per bambini così piccoli di tenere fermo il capo, conservare attenzione visiva e così via, cioè tutti quei requisiti posseduti dall’adulto che si sottopone a studi di neuroimmagine funzionale dell’encefalo.

Tristan Yates e colleghi guidati da Nicholas B. Turk-Browne hanno indagato con queste speciali modalità fMRI – in parte introdotte da loro – il cervello di bambini dai quattro mesi ai due anni di età durante prove specifiche, allo scopo di verificare se e in quale parte dell’ippocampo (sistemi anteriori o posteriori) si verifichi la codifica di esperienze visive, per dedurne informazioni utili a chiarire qualcuno degli aspetti della neurofisiologia precoce in rapporto alla formazione di memorie. Lo sviluppo dello studio e la sua discussione sono di notevole interesse.

(Yates T. S., Hippocampal encoding of memories in human infants. Science 387 (6740): 1316-1320, 2025).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Psychology, Columbia University, New York, NY (USA); Department of Psychology, The New School for Social Research, New York, NY (USA); Department of Psychology, Yale University, New Haven, CT (USA); Department of Psychology, Stanford University, Stanford, CA (USA); Wu Tsai Institute, Yale University, New Haven, CT (USA).

Non è documentata l’abilità di formare memorie dei fatti di esperienza vissuti nei primi tre anni di vita; non si tratta della temporanea dimenticanza di episodi, persone e vissuti dell’infanzia durante l’adolescenza, come accade a molti: ciò che nei primi 24-36 mesi non può essere ricordato da nessuno mai, durante tutta la vita, come se non si fossero mai formati dei ricordi. Fu Freud a coniare l’espressione “amnesia infantile”, che abbiamo già commentato, e per molto tempo i medici che studiavano lo sviluppo postnatale del sistema nervoso si sono divisi in sostenitori della tesi che la mancanza di ricordi fosse la naturale conseguenza dell’immaturità del cervello e sostenitori di un “meccanismo psicologico di dimenticanza”, affermatosi in chiave adattativa perché capace di proteggere il cervello dallo stress originato dalle esperienze negative precoci, a cui il neonato e il lattante reagiscono molto intensamente[1].

Recentemente si è riacceso il dibattito fra coloro che ritengono l’immaturità alla nascita del sistema nervoso centrale nella nostra specie (prematurazione specifica) responsabile della mancata formazione di memorie stabili, e coloro che suppongono che le memorie si formino, ma si determini una preclusione all’accesso, che ne impedisce il richiamo.

Tristan Yates, Nicholas B. Turk-Browne e colleghi hanno effettuato scansioni fMRI dell’encefalo di 26 bambini dai 4 mesi ai 2 anni durante l’esecuzione di un compito (inconsapevole) di memoria sequenziale, rilevando in particolare l’attività dell’ippocampo anteriore e posteriore in associazione con il comportamento indicante la semplice percezione o il riconoscimento di immagini già viste.

I ricercatori hanno verificato se l’attività dell’ippocampo era correlata alla forza delle memorie dei bambini, e hanno rilevato: più grande era l’attività dell’ippocampo quando un bambino guardava una nuova fotografia, più a lungo il bambino si soffermava a guardare quell’immagine quando riappariva dopo una foto nuova. La porzione posteriore dell’ippocampo faceva registrare la più intensa attività di codifica. Da notare che nell’adulto la codifica delle memorie episodiche si ritiene avvenga proprio nell’ippocampo posteriore.

Questi esiti sono stati confermati in tutti i 26 bambini del campione, ma le risposte più marcate erano quelle dei bambini di più di 12 mesi, peraltro costituenti circa metà del campione. Questo “effetto dell’età” fornisce un interessante elemento alla costellazione di dati su cui si basa il quadro teorico sul ruolo dell’ippocampo in memoria e apprendimento.

In un precedente lavoro, lo stesso team aveva dimostrato la presenza già in bambini di tre mesi di un differente processo di memoria-apprendimento, detto “apprendimento statistico”. L’apprendimento statistico compare cronologicamente prima ed è sostenuto dall’ippocampo anteriore, mentre la memoria episodica compare (o matura) più tardi nell’ippocampo posteriore. Basandosi su questa nozione, Turk-Browne sostiene che la memoria episodica appaia più tardi nel bambino, intorno a un anno di età o poco dopo.

In ogni caso, i risultati di questo studio dimostrano l’esistenza precoce dell’attività di codifica mnemonica da parte dell’ippocampo posteriore, che dai 12 mesi in poi può codificare contenuti episodici, indicando come più probabile quale diretto responsabile della mancanza di ricordi precoci l’inaccessibilità al richiamo rievocativo.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-29 marzo 2025

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Si cominciava già a interpretare il pianto nel primo anno di vita come “crisi psiconeuromotoria”.